L’idea-base nasce da un nonnulla, un pensiero, poco più di una macchiolina, una intuizione, una fettina di luna, a volte così fugace che viene dimenticata ed è un peccato, perché muore piccola.
L'idea, dicono gli esperti, è prodotta dalla nostra immaginazione per rispondere ad un bisogno, per riempire un vuoto. Nel caso dei testi è un vuoto che chiede parole: è voglia di parole.
Credo sia vero, ma per verificarlo ho fatto una prova.
Mi sono domandato perché ho iniziato a scrivere questo testo e dov’ero quando l’ho pensato. Era ieri, ero in macchina, percorrevo lentamente una strada vicino a casa, che amo per la sua tranquillità, con campi estesi, recinti pieni di puledri e un mare di alberi. È una stradina bellissima che per anni ho percorso per camminate veloci con la compagna della mia vita, Margherita. Nei primi anni, lei ed io, misuravamo i tempi di percorrenza (il record fu di venti minuti, andata ritorno, da dove parcheggiavamo l’auto) poi, con tempi sempre più rallentati dai mali che avevano colpito duramente Margherita, alla fine non guardavamo più l’orologio: lo scopo non era più allenarsi a camminare rapidamente, ma godersi la passeggiata.
Quando ieri ho ripercorso quella strada avevo appena finito di scrivere
una canzone che, se ci pensate bene, è un lavoro da artigiani. Ne riporto solo il testo, perché la musica in questo caso non è poi così influente. L’idea-guida mi saltò alla mente quando mi ricordai che un mio amico copywriter mi aveva raccontato che quando aveva necessità di “ricaricarsi” per produrre un testo creativo per una nuova campagna pubblicitaria, lasciava stare la tastiera del PC e si metteva a finire un mobiletto di mogano che stava costruendo da mesi. Lui è un bravo bricoleur e si diverte a costruire librerie e mobiletti per la casa. Io sono incapace di fare cose del genere e mi venne chiara in testa una frase: “C’è chi fa bricolage facendo mobiletti e chi incolla melodie al posto dei cassetti...”
Ognuno è un bricoleur a modo suo. Io, non sapendo fare mobili scrivo, oltre ad articoli, editoriali, libri. E scrivo canzoni. Il mio, quindi, è spesso bricolage musicale. Così nacque il titolo. La canzone si divide in due parti, la strofa e il ritornello. Il testo di Bricolage musicale è il seguente:
““C’è chi fa bricolage
facendo mobiletti
e chi incolla melodie
al posto dei cassetti.
Musicisti artigiani,
gente poco sfacciata,
si vergognano persino
di una rima baciata.
Hanno sensi di colpa
quando passano ore
a cercare armonie,
a inseguire un colore.
“Questo giro di accordi non mi sembra stia male…”
e continua così
il bricolage musicale.
Poi viene il momento clou: nasce il ritornello, l’attimo in cui l’idea si concretizza:
“Eccola, spunta fuori,
non sai come
prende forma.
Un pensiero, una parola, molto plastica,
un po’ fantastica.
Si plasma e si forma, scompare e ritorna,
tu mischi i colori per nascondere i dolori.
Sono pezzi di vita
nei quali è finita
tutta quanta la voglia
di far muover le dita.
È dipingere un telo
coi colori del cielo.
Non c’è un perché,
non esiste un motivo,
è un pezzetto di te
che diventa più vivo.
La canzone è un oggetto,
un pezzo di artigianato,
può aver dentro poesia
(forse di antiquariato).
Può aver dentro l’amore;
certo ha dentro i ricordi,
che diventano parole
messe sopra gli accordi.
“Non mi sembra stiano male...”
È bricolage musicale.
Lo spunto di un’altra canzone mi venne a Dakar molti anni fa, ai bordi di una piscina, sotto un altissimo baobab che faceva impressione per la sua maestosità. Pensai: “Però, quando nasce, è solo una gemma, piccola come lo sono le gemme quando spuntano”.
Fu sufficiente per far nascere Baobab, un brano che ha, come tutti quelli che creo, oltre al titolo anche un sottotitolo: “Avviso ai killer delle idee nascenti: uccidere le idee quando sono bambine è come stroncare una gemma di baobab prima che abbia il tempo diventare un grande albero”.
In effetti molte idee, sul nascere, sono così fragili che un giudizio negativo le stronca. Con la scusa di fare l’avvocato del diavolo molti si divertono a criticare gli spunti che sentono dire dagli altri. Così si trasformano in killer delle idee nascenti. È bene, invece, lasciarle crescere, le gemme di baobab. Anche perché stroncarle sul nascere richiede poco sforzo (bastano due dita per spappolare una gemma) ma si potrebbe avere ucciso un futuro, enorme baobab.
All’indomani scrissi il testo:
“Spero che tu non sia
un killer delle idee.
Spero che tu protegga
l’idea che sta nascendo.
Spero che, quando nasce un’idea,
tu non usi un pensiero
che ti acceca il giudizio.
Quando nasce, l’idea,
è una piccola gemma di baobab.
Spero che tu non spezzi
una gemma che sta nascendo: potresti aver ucciso
un grande baobab.
Spero che tu non sia
un killer delle idee
che nascono bambine.
Quando nasce, l’idea,
è una piccola gemma di baobab.”
Forse in questo caso la musica, una rumba molto vivace, rende la canzone fruibile e memorizzabile. Una volta che in casa, poco dopo che la canzone era nata, vennero due dei miei cari amici del gruppo cileno degli Inti Illimani, i fratelli Marcelo e Jorge Coulon, la cantai e loro la trovarono divertente.
La cosa curiosa è che, passati moltissimi anni, quando Walter Veltroni venne eletto sindaco di Roma, memore dei concerti che gli Inti Illimani facevano negli anni 60 con i loro poncho rossi nei Festival dell’Unità, organizzò, per il trentennale del gruppo, un grande concerto in Via dei Fori Imperiali. Alla fine del concerto andai nel camerino per salutare i miei amici e con sorpresa, dopo circa vent’anni, Jorge Coulon mi presentò al sindaco come “l’autore di Baobab”. Incredibile. Se ne era ricordato.
Con tutte le cose che ho fatto nella mia vita (francamente più importanti), il fatto di essere presentato con grande pompa come l’autore di Baobab fu una delle cose più buffe della mia attività creativa.
Molta gente di chiede perché non ho mai editato queste canzoni. Di tutte quelle composte (una trentina), forse, una decina si potrebbero salvare. Ma sono rimaste inedite e fatte ascoltare poche volte a persone di solito distratte, perché la gente preferisce sentire delle cover: se fai sentire delle cose nuove, parlano mentre canti, dissertano di politica proprio quando tu ameresti sentire il parere su di una metafora che ti sembrava piuttosto azzeccata o su un giro di accordi che ti sembrava innovativo. I più sfacciati t’interrompono per chiederti: “Ma non sai qualche pezzo bello, che so, qualcosa di Battisti”
È il destino delle persone che tolgono un po’ di tempo al loro lavoro ufficiale per fare qualcos’altro: ci vuole del tempo per far prendere in seria considerazione medici che fanno cabaret, avvocati che creano milonghe, manager che suonano il sax o professori che infilano delle metafore sugli accordi, alla ricerca di suggestioni colorate.
Anche per questo, con quel senso critico molto sviluppato di chi proviene, come me, dal jazz mi è sempre sembrata cosa di poco conto comporre e cantare delle canzoni, anche se canto da quando avevo sei anni. Per anni ho accumulato nei cassetti dei brani musicali.
La spinta a comporre mi venne, a metà degli anni ’80, come conseguenza di un seminario che organizzai sul tema “Come nasce una canzone”. Nell’intervistare molti autori, ed in particolare dei cantautori, ebbi la conferma che non esisteva un metodo comune. Ognuno faceva di testa sua: mi raccontarono di gente che prendeva il treno solo per comporre brani ritmici, stimolata dal ritmo delle ruote che una volta battevano sulle giunture dei binari, di altri che giravano con registratori tra i boschi per catturare nuove melodie dagli zufolii degli uccelli, di gente che si faceva raccontare dagli amici i loro amori strazianti per trovare stimoli sentimentali, di altri che non avevano bisogno che gli raccontassero nulla perché erano già pieni di problemi per conto loro. C’era poi chi prediligeva la linea melodica, chi i giri armonici, chi puntava tutto sul ritmo: insomma, di tutto e di più. Quasi sempre, alla domanda “Come ti è venuta l’idea?” quasi tutti mi rispondevano “Non so, mi è venuta”.
Ovviamente mi venne la curiosità di capire quale sarebbe stato il mio modo di comporre canzoni. Amando l’armonia e il ritmo, più ancora delle linee melodiche, ho scoperto che, senza cantare accompagnato dalla chitarra, la testa si bloccava. Per fare un esempio: si potrebbe mai comporre “Samba de una nota so” senza suonare nel contempo i 14 accordi che generano un bellissimo contrasto tra una sola nota, ribattuta, e la suggestiva sequenza armonica sulla quale si basa quella bossa nova?
Fuori dal mio pensatoio musicale potevo solo produrre delle idee, degli spunti creativi, oppure dei versi, ed in effetti alcuni pezzi li ho creati in macchina, come si usa dire, “sgorgati dal cuore”. Mi fermavo nelle piazzole per prendere appunti sulla frasi più stimolanti, poi a casa rifinivo il testo e creavo la melodia e l’armonia.
Le composizioni nate in auto sono per lo più delle poesie e lo sarebbero state davvero se non mi fossi impedito di accrescere la tribù dei poeti domenicali. Gli spunti potevano essere i più diversi, a volte lirici, a volte un po’ folli, come l’idea-base di “Vivere sotto ai vulcani”: perché la gente costruisce delle case in cima o appena dotto un vulcano, sapendo che prima o poi la lava li punirà?
L’idea mi era venuta quando feci un viaggio a Catania, in un momento in cui Iddu stava eruttando, coprendo la città di cenere nera. Mi portarono con un 4x4 vicino all’eruzione dove vidi una casa, adibita a bar, tutta storta per la pressione che la lava aveva esercitato sull’edificio, piegando la casupola.
Vivere sotto al vulcano è la metafora della passionalità.
Ecco il testo:
Razionalmente
mi chiedo sempre:
perché si fanno,
sotto ai vulcani
case e villaggi e non solo viaggi
andata e ritorno,
di un solo giorno.
Forse sarà perché
piace alla gente
il vivere ardente
che dà il vulcano:
oggi ci sei, domani no,
piace la sfida e, perché no,
irrazionalmente
forse si sente
dentro alle vene
scalciar le pene
di amori antichi
ma sempre attuali
sempre diversi
ma sempre uguali,
scosse d’amore,
di tuffi al cuore,
irrazionali, ma tali e quali
da mille anni, zuffe ed affanni,
sotto ai vulcani.
Una canzone, molto lirica, è invece dedicata a un astro che da solo, dopo la parola amore, occupa quasi tutto lo spazio della musica d’autore: la luna. Ho pensato a quante parole sono state spese per la luna, quanto cose hanno detto di lei. Il titolo, infatti, è “Luna, quante cose hanno detto di te”.
Dimmelo,
dimmelo, quante cose hanno detto di te,
luna.
Sei l’amante dei tristi di cuore,
un pallore che illumina il cielo,
sola amica dei malati d’amore,
a volte appena coperta da un velo.
Faccia bianca per metà segreta,
che da sempre sa far sognare,
non hai acqua che ti disseta
e vivi solo di luce solare.
Ti hanno detto di tutto e di più,
colorata di mille colori:
rossa, pallida, verde ma tu
resti lì ad assorbire dolori.
Gli astronauti han calcato il tuo mare,
così tranquillo nel sonno profondo,
e passeggiando sul suono lunare
ti han portato tutto il peso del mondo.
In silenzio da miliardi di anni
sei la donna che parla di meno
sei la sola che toglie gli affanni
senza usare né il grembo né il seno.
A volte pallida,
colore del latte,
donna diafana che dorme serena,
sorprendi sempre chi in te s’imbatte
nel tuo momento di luna piena.
I coyotes ti parlano urlando.
i poeti ti scrivono sussurri,
chi si ama ti guarda sognando
ispirato dai tuoi deboli azzurri.
Sei la quieta sorella di un sole
che t’uccide con la luce del giorno
ma ogni notte sui campi di viole
tu rinasci e fai sempre ritorno.
Forse tu odi il tuo fratello giallo
che ti fa vivere e che ti da la luce,
quel sole caldo ma un po’ sciacallo:
vorresti ucciderlo,
ma non ne sei capace.
Dimmelo, dimmelo,
quante cose hanno detto di te,
luna.
Un’altra canzone inedita è L’isola, un madrigale che aveva anche un sotto-titolo: Inventata per scappare dal mondo.
“Se vuoi,
ti faccio un po’ di posto
nella mia isola
dove gli uccelli cantano al mattino,
quando è troppo presto per tutti,
dove i sogni sono Nutella
mangiata con le dita
se ti svegli affamato di sesso e caffè
e i ricordi sono iene furiose:
vieni se vuoi,
solo se vuoi.
Se vuoi
ti lascio un po’ di posto
nella mia spiaggia
dove nessuno
si sdraia al mattino
a invidiare quei voli
di stormi sperduti,
quel battito lento
di bianche ali stanche,
quei voli sfibrati
di gabbiani ciechi,
di uccelli persi:
vieni se vuoi, solo se vuoi.
Se vuoi
ti lascio rimanere nella mia isola
solo se anche tu hai guardato i migratori,
altissimi nel cielo, liberi, eleganti,
ed hai desiderato
di stare in mezzo a loro
a veleggiare lento, muto,
sordo e stanco
verso non so dove.
Vieni se vuoi, solo se vuoi.
Se vuoi
ti faccio vedere un’isola inventata
per scappare dal mondo,
una scheggia di cuore piantata nel cervello,
con le palme salate, dal sapore di lacrime,
di un bianco colomba, di un azzurro profondo,
il colore che hanno gli occhi dell’addio.
Vieni se vuoi, solo se vuoi.
Se vuoi
ti faccio vivere nell’isola di sogno,
dove tutti son liberi e han cervelli trasparenti,
dove i flauti son soffi
le donne non chiedono,
i maschi non dicono,
dove dormono sonni infiniti
regine lontane
e le stelle son quelle del jazz.
I poeti non scrivono,
perché basta pensare,
tutto è già poesia,
tutto è già fantasia,
nell’isola mia.
Vieni se vuoi.
Solo se vuoi.
Un amico mi ha detto che sono quasi tutte canzoni maledettamente romantiche. Probabilmente è vero, ho una natura sentimentale. Ma qualcuna cerca di essere divertente. Un giorno, in viale Trastevere, ho visto un cartello dell’Enel: Chi tocca i fili muore.
Così è nata Perché poi? (La ballata del trasgressivo):
Vorrei capire,
perché poi,
che senso ha soffrire:
stare a dieta, non fumare, bere Hag…
per cosa poi, lo capite voi?
Dice l’Enel
nei suoi cartelli,
chi tocca i fili muore,
ma, dico io,
anche chi non li tocca,
prima o poi...
Fatemi capire
perché dovrei
castigarmi, fare il santo,
riguardarmi,
se tanto, prima o poi...
Che senso ha soffrire:
evitar la Nutella,
per poi arrivare,
sia come sia,
a far bella figura all’autopsia.
Ah... le canzoni, un mondo senza il quale avremmo meno emozioni e pochi colori. Ho un collega che si occupa di selezione del personale: mi dice che la risposta più svelante, per lui, nei colloqui che fa con i candidati, è il titolo della loro canzone preferita.
Sarebbe bello conoscere la vostra risposta a questa domanda: se volete mandatemi una e-mail a: enricocogno37@gmail.com
Buona vita.
Pubblicato il 11/10/2024 alle ore 10:49 da Enrico Cogno
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