Coccodrillo è un termine che ha due significati: nel mondo animale indica, come si sa, un grande rettile fluviale. Nel gergo giornalistico, invece, indica un articolo commemorativo, scritto prima della morte di un personaggio celebre, per poterlo pubblicare tempestivamente non appena giungerà la notizia del suo decesso. E’, in fondo, un forte riconoscimento alla notorietà di un personaggio: i giornalisti dicono che chi non ha un coccodrillo ha sprecato la vita.
Il nome di questa voce deriva dal detto “piangere lacrime di coccodrillo”, cioè elogiare una persona in modo falso e ipocrita. Infatti si pensava, erroneamente, che così facesse il rettile, piangendo copiosamente dopo aver mangiato la sua prole. Si è poi scoperto che le femmine del grande rettile sono state per anni ingiustamente accusate di questa orribile pratica, mentre in realtà mettono con delicatezza nella loro bocca le uova (o i piccoli appena nati) solo per spostarli in un posto più sicuro quando il nido è minacciato. Lo fanno senza arrecare nessun danno alla prole e, se piangono, è perché le lacrime sono il modo di lubrificare il bulbo oculare e facilitare così il movimento della seconda palpebra, quella usata durante la permanenza in acqua. Resa giustizia alle “coccodrille”, torniamo al coccodrillo giornalistico. Io, per mestiere, ne ho scritti centinaia, per quasi tutti i grandi del jazz sopra una certa età, da Duke Ellington a Lionel Hampton, da Louis Armstrong a Kid Ory. Mi è rimasto impresso quest’ultimo, il vecchio e dolcissimo trombonista di New Orleans, che avevo conosciuto (come tutti gli altri) personalmente anni prima. Quando appresi del suo decesso non riuscii a mandare in stampa il coccodrillo già pronto da un paio di anni in redazione. Ne scrissi un altro di corsa, molto commosso, perché mi sembrava davvero una cattiveria salutare un generoso musicista con un articolo congelato come un findus. Ecco qui sotto il pezzo che uscì nel gennaio del 1973: lo trascrivo per renderlo leggibile, ma ho pubblico anche il ritaglio.
Il jazz, con la morte di Kid Ory, ha perso un’altra delle sue figure leggendarie. Era il più grande trombonista dello stile tradizionale e molti l’hanno considerato un padre spirituale. Edward Ory, detto Kid, il monello, ebbe tra le sue formazioni nomi di “grandi” come King Oliver e Louis Armstrong e compose brani, come Muskrat Ramble e Savoy Blues, che rimangono dei classici intramontabili.
Al di fuori delle biografie ufficiali, troppo aride per dare un tratto dell’uomo nel momento in cui si parla di lui come un vecchio amico che ci ha lasciato, rimane per me indimenticabile l’incontro che ebbi con Kid Ory a Torino 15 anni fa. Era in programma un concerto al Teatro Alfieri, inserito nel mezzo di una di quelle tournée massacranti che obbligano questi vecchi musicisti a dimenticare l’età e a percorrere mezzo mondo nel giro di poche settimane. Arrivò alla stazione di Porta Nuova alle sette del mattino, nella nebbia torinese, con un freddo pungente, morto di sonno, lui e gli altri musicisti, sulle spalle settimane di concerti faticosi. Si attendeva, forse, il solito smarrimento, tipico dell’arrivo nelle città sconosciute: la ricerca dell’albergo, la coda per l’attesa del taxi, anonimi tra la folla anonima. Noi (avevamo pochi anni, tempo da perdere e voglia di far felici i nostri idoli che venivano da New Orleans) organizzammo una sorpresa per il gruppo di Kid Ory. Andammo in una decina, trombe, clarinetti, tromboni e batteria, ad aspettarlo in testa al binario. Quando spuntò il vecchio Kid Ory (la faccia tristissima, tirata, stanca) attaccammo tra lo stupore dei portabagagli e dei passeggeri, il “suo”.
Pubblicato il 18/06/2018 alle ore 09:44 da Enrico Cogno
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