Di Enrico Cogno
In questi giorni, mentre mettevo ordine in alcuni cassetti, mi è venuta in mano la copia di un bollettino dell’Hot Club di Torino di cui avevo nella mente alcune tracce un po’ sbiadite, dato il tempo che doveva essere trascorso da allora. Ho cercato la data di edizione e, curiosamente, ho notato che in nessuna delle 12 pagine del notiziario era indicato l’anno in cui è stato prodotto. Però, nel colophon, si precisava che era il Numero 2, Anno 1 della Nuova Serie, e per i concerti che si sarebbero prossimamente svolti a Torino era indicato il giorno e il mese, seguiti dalla scritta c.a. (corrente anno); ricordo che in quel periodo si dava per scontato che tutti sapessero l’anno in cui si viveva, per cui non serviva scriverlo, tranne che nella corrispondenza. Siccome quel Bollettino non era una lettera, l’anno non veniva mai citato. Questa curiosa abitudine credo fosse dovuta al fatto che nei decenni precedenti, durante il ventennio, ogni data riportava obbligatoriamente la sigla dell’Era Fascista, espressa in numeri romani, che rendeva quasi superfluo (per il regime) indicare anche l’anno del calendario gregoriano. Il mio atto di nascita infatti riportava il 28 aprile XVI Anno dell’Era Fascista. Non sempre veniva anche indicato il corrispettivo ann0 1937, che nei documenti religiosi prendeva il nome di Anno di Grazia.
Il fatto che quel notiziario non riportasse neanche una volta l’anno di pubblicazione forse era giustificabile per via di questa abitudine, oppure era una mera dimenticanza un po’ barbina.
Mi premeva comunque sapere in quale anno fosse stato pubblicato e così lessi con attenzione ogni riga di quel Notiziario che mi appariva sempre più un piccolo capolavoro di artigianato dilettantesco: faceva una grande tenerezza. In una recensione di un concerto di Phineas Newborn jr, che si era tenuto il mese prima, si precisava che il pianista aveva 26 anni, e sapendo che era nato nel 1931, ho calcolato l’anno di edizione del bollettino: 1957.
Il Notiziario era realizzato, questo me lo ricordavo bene, sotto la guida di Renato Germonio, grande pianista, trombonista, tromba, fisarmonica a tasti e nume tutelare dell’Hot Club, fondato nel lontano 1933. Torino era stata una piazza molto importante per il jazz: aveva ospitato uno storico concerto di Louis Armstrong a visto nascere molte jazz band grazie a degli sponsor come Antonino e Sobrero che mettevano a disposizione gratuitamente le loro “taverne” per le esibizioni.
Io mi occupavo di jazz da due anni e facevo parte dell’altro jazz club della città, il Circolo Torinese del Jazz (del quale ero segretario), un club elegante ospitato in una palazzina lussuosa che apparteneva al circuito degli ex alunni del San Giuseppe, la scuola dei gesuiti frequentata dal gotha della “Torino bene”. Io non avevo studiato in quell’istituto ma grazie alla democrazia della musica ero stato assorbito senza bullismo in quel contesto un po’ snob. Il mio club non era così organizzato da pubblicare un proprio notiziario ma in compenso teneva delle jam session settimanali di grande successo, commentate da un socio nelle vesti di “critico del jazz” (oggi sarebbero da ospitare a Ted), ruolo che mi vedeva specializzato nel trattare i linguaggi post bebop, come il Californiano e il primo Cool jazz. Si chiamavano jam session perché in qualche caso iniziavano davvero con una sessione di musica dal vivo, organizzata in base ai soci che si erano portati lo strumento, mentre altre volte si usava quella definizione ma erano solo audizioni: il giradischi del club era a disposizione di chi aveva prenotato la sessione.
Continuando la lettura di quelle pagine mi sono apparse evidenti, oltre alla omissione dell’anno, anche altre note curiose, all’epoca banali, ma oggi abbastanza significative. Cito quelle che mi hanno colpito maggiormente.
La prima riguarda il modo di redigere l’elenco dei soci del club. Oggi, in un elenco di stakeholder scriviamo di solito nome e cognome, indicando, quando è noto e utile, il titolo professionale, tipo: Avv. Filippo Rossi, Ing. Giorgio Benassi, ecc.
Invece l’elenco della Commissione incaricata di realizzare il notiziario dell’Hot Club riportava solo i cognomi, tutti preceduti dal titolo di studio o dal titolo onorifico. Per chi ne era privo, era indicato solo un Sig. che lo faceva apparire quasi un analfabeta.
Riporto la prima riga: M° Germonio, Conte Belgrano, dott. Miroglio, Sig. Lama, Rag. Berrettini, Geom. Musso, Perito Ind. Fasano, Comm. Bertone, Cav. Baudino.
Va ricordato che negli anni 50 molte persone, anche a causa della guerra, non avevano terminato gli studi, i laureati erano pochissimi ed i diplomati erano abituati a vedere sempre riportato il titolo del diploma, conseguito spesso a fatica. La gente dello spettacolo, gli imprenditori e gli esercenti e si dotavano di titoli acquistabili (a cifre neppure troppo esose) presso appositi Studi Professionali che si incaricavano di predisporre la nomina di Commendatori, Grand Ufficiali o Cavalieri. Andava bene qualunque cosa, pur di evitare quel riduttivo Signor.
Comparivano anche titoli di diplomi che oggi nessuno userebbe in un elenco: Perito Commerciale, Tecnico Nautico, ecc.
Tre delle persone citate nell’elenco le ricordo molto bene: sono indicate come Maestro Germonio, Conte Belgrano e Sig. Lama.
Il primo era da tutti apprezzato non solo per le sue doti musicali ma anche quale guida manageriale per eventi e concerti: non poteva, non essendo laureato, essere indicato come Dottore ma indicarlo come Sig. sarebbe stato offensivo, per cui era, per tutti, il M° Germonio.
Giampaolo Belgrano era una adorabile giovane che suonava il sax tenore con una timbrica e un sound davvero eccellenti ma, nel gergo del jazz, veniva definito uno “squadrato”. Non avere il senso della “quadratura”, nel jazz, è un giudizio inappellabile, come dire in un cantante che è totalmente stonato.
Per chi non è avvezzo al jazz credo si debba spiegare che l’improvvisazione, in questo tipo di linguaggio musicale, è tutto. Per chiarire: quando si esegue uno standard la band segue di solito uno schema, chiamato A.A.B.A. che prevede una introduzione di 4 battute del pianoforte o della chitarra (serve solo a creare l’atmosfera e dare il ritmo) poi si esegue una prima volta il refrain,
lo si ripete una seconda volta, poi si passa all’inciso e infine si chiude ripetendo il refrain per la terza volta.
Di solito un gruppo jazzistico (mettiamo un quintetto composto da tromba, sax, piano, basso e batteria) esegue il brano o usando la melodia così come l’ha composta l’autore, oppure la rende già oggetto di nuovo arrangiamento; poi prosegue affidando un giro di improvvisazioni ai componenti del gruppo, di solito per primi i fiati e spesso anche il piano. Nella parte di improvvisazione ogni musicista crea sul momento (quindi ri-compone, in modo estemporaneo) la linea melodica del pezzo in base alla progressione armonica fornita dagli accordi.
Essere squadrato significa che durante la fase di improvvisazione (che è l’essenza del jazz) il musicista, poco dopo, non riesce più a seguire gli accordi, non sa quindi in quale misura sta suonando e spesso non conosce le scale che si possono utilizzare per una efficace improvvisazione (la esatonale, la diminuita, la pentatonica, la misolidia, ecc.)
Senza “quadratura” non si può eseguire del jazz.
Giampaolo Belgrano, persona timidissima, di una gentilezza disarmante, con alcune difficoltà non solo musicali ma anche psicologiche, era l’ultimo rampollo di una famiglia nobile, i Conti Belgrano. Aveva notevoli difficoltà nello studio e nel lavoro, per cui la famiglia, grazie alla sua storica collocazione nel quadro delle casate eccellenti, era riuscita a farlo assumere alla Fiat in un ruolo marginale, nella sicurezza dell’azienda. Era amato da tutti e anche in questo caso, non potendo usare né il Dottor né il Sig., veniva nell’elenco indicato con il titolo della casata, Conte Belgrano, anche se, con la costituzione della Repubblica, i titoli nobiliari non erano più riconosciuti.
Cito un terzo nome, che firma anche uno degli articoli dal quale tra un attimo traggo un rilievo importante: Maurizio Lama, un ragazzo dalla parlata romana, trasferitosi a Torino quando suo padre assunse l’incarico di Provveditore agli Studi della città. Dopo aver iniziato a suonare jazz in stile tradizionale in vari gruppi romani, Maurizio Lama trovò nell’ambiente torinese una nidiata molto attiva di “modernisti”, primo tra tutti Enrico Rava, anch’egli dapprima attivo con il trombone nel jazz classico, poi passato alla tromba e al cool jazz. Nell’elenco era solo il Sig. Lama, ma riuscì in breve tempo a crearsi uno stile molto personale ed a conquistare sulla tastiera una leadership che lo portò a produrre una serie di dischi di ottimo livello. Poi, poco dopo i trent’anni, in un incidente stradale sull’Autostrada dei Fiori, all’altezza di Busalla, perse la vita. Fu un lutto molto grave che rattristò l’ambiente jazzistico di quel periodo.
La recensione che il notiziario riproduceva era stata redatta Maurizio Lama per un concerto di Phineas Newborn Jr.
Grazie al fatto che lo definiva 26 enne, come ho già precisato, ho ricostruito l’anno in cui il bollettino era stato edito, ma il pianista veniva da Maurizio Lama anche presentato con un aggettivo che all’epoca era considerato, nel jazz, una qualifica di merito ma che oggi solleverebbe roventi polemiche: pianista negro.
Oggi diremmo afro-americano, nero, di colore, com’è imposto dalle regole del politicamente corretto. Ma Lama scrisse, come si usava: pianista negro.
Sempre nello stesso numero del notiziario dell’Hot Club è citato, tra i collaboratori, anche Al Tanner, un cantante della Louisiana che viveva in un hotel del centro di Torino dopo aver sbancato un Casinò, decidendo, unico esempio di sobrietà tra i frequentatori delle case da gioco, di vivere il resto della sua vita senza fare nulla, godendosi il frutto di una serata fortunata.
Lo conoscevo bene, Al Tanner. Lo scritturavo come cantante per il mio gruppo di jazz; era molto simpatico, sempre sbronzo a qualunque ora del giorno e della notte, e, come lui stesso diceva, vantandosene, era negro, non nero (mi diceva “Ma che nero, non sono un paio di scarpe”) né tantomeno “colorato”, che lo faceva impazzire dalle risate: “Che colore? Marrone? Allora tu sei rosa!”
Il fatto che fosse “negro” era in realtà il motivo per il quale lo scritturavo perché come vocalist non era un granché, ma il suo look da figlio dei raccoglitori di cotone dava alla mia jazz band un tono di credibilità.
Mi ha poi sorpreso scoprire, in una corrispondenza da Genova di Giovanni Besozzi, che il Sestetto Cool che si era esibito in una serata a teatro aveva al sassofono tenore Fabrizio De Andrè e al sax alto Luigi Tenco, all’epoca ancora poco noti nel mondo della canzone. Tant’è che quando, 67 anni fa, io lessi quel notiziario, neppure mi accorsi dei nomi di De Andrè e Tenco, a me ancora sconosciuti.
Era poi citato un Trio Moderno Strumentale di Asti che, anche se non sono indicati i componenti, immagino fosse composto da un pianista, un mio buon amico, Paolo, che studiava Giurisprudenza a Parma e da suo fratello Giorgio, batterista, poi diventati celebri anche come geniali compositori: Paolo Conte e Giorgio Conte.
All’epoca, nei concerti della mia band, quando veniva chiesto un quintetto, a volte ci raggiungeva da Asti Paolo Conte. Quando al piano c’era Ennio Vitanza (un innamorato di Monk che all’epoca aveva vinto un concorso nelle ferrovie come Capo Stazione Aggiunto alla stazione di Porta Nuova e che poi si trasferì a Milano a fare il cronista sportivo alla Rai), Paolo portava il vibrafono, sul quale è sempre stato molto bravo.
Sempre come vibrafonista, con il fratello Giorgio alla batteria, diversi anni dopo, nel 1962, Paolo incise per la RCA Victor un extended play dal titolo “The Italian Way to Swing” sotto il nome, americanizzato, di Paul Conte Quartet. È un disco purtroppo introvabile.
Mi ha poi incuriosito andare a cercare dove fosse la sede dell’Hot Club, che io non frequentavo, perché non era il mio club: era indicata come Palazzina A.P.M. al Parco Michelotti. Ora, i non torinesi sono autorizzati a non conoscere questo verdissimo parco sulle rive del Po, ma i torinesi sanno benissimo che le costruzioni erano, in quella zona, rarissime ed io mi ricordavo che la più nota di queste era il frequentatissimo (soprattutto dalle ragazze in cerca di marito) Circolo dei Macellai. I giovani esercenti di quel settore rappresentavano un interessante partito, a livello economico. Poi ho capito perché l’Hot Club, per indicare la sua sede, non usava il nome del Circolo ma “Palazzina A.P.M.”. Stava per Associazione Provinciale Macellai ma, volutamente, con quella sigla glissava sulla professione che non reggeva, per i benpensanti dell’epoca, il confronto con il San Gip, composto da ex alunni dei Gesuiti e non da venditori di pezzi di bovino.
Insomma: si poteva dire “negro” ma non “macellaio”.
Come appare buffa la vita dopo un intervallo di 67 anni.
Pubblicato il 03/07/2024 alle ore 18:34 da Enrico Cogno
Centrostudi comunicazione cogno e associati © Enrico Cogno 2018-2024 Responsabile: Enrico Cogno. - Partita IVA 01872310584.
Made with oZone iQ