Posso darti del tu, Enrico?
Dai, ma lo sanno tutti, ormai, che sei il mio avatar. Ti ho pure dato il nome di mio nonno…
Ma così il trucco dell’autointervista si scopre subito.
Ma io detesto i trucchi, lo sai. Ho inventato questo giornalista inesistente solo perché è molto comodo ricevere domande utili, evitando quelle scomode.
Allora te ne faccio una scomoda.
Vedo che ti stai emancipando. Avanti.
So che il romanzo che hai appena pubblicato, IL RAGAZZO CHE VOLEVA DIVENTARE UN AGGETTIVO, era pronto da mesi ma esitavi a renderlo pubblico. Perché? Non ti ho mai visto così esitante.
Ah, parti bene. I motivi sono molti, ma ne scelgo due, per sintetizzare: quando sei specializzato nel fare dei manuali tecnici e ti riesce facile produrli, oppure fai ghost writing per imprenditori che non hanno tempo per scrivere i loro testi, ti aspetti che tutto vada liscio. Pubblicare un romanzo è diverso, soprattutto se hai 86 anni, hai un sacco di studenti che ti seguono, non hai mai scritto nulla di fiction… Insomma, ti devi buttare nel vuoto. Sai, quando avevo vent’anni lo facevo senza problemi: alla scuola dei Vigili del Fuoco, a Capannelle, buttarsi da 20 metri a braccia aperte nel telo che era steso sotto, era bello e facile. Al massimo rimbalzavi sul cemento e ti scorticavi un po’. Quando, nella vita, sei ai tempi supplementari, diventi più cauto. Ti chiedi: ma non penseranno che avresti potuto evitarti una figura del genere?
Ma ti stanno arrivando centinaia di messaggi affettuosi, tutti positivi.
Già, ma questo lo sai dopo che ti sei buttato.
E la seconda ragione qual è?
È che sono scomparsi gli editori. Se sei un autore che vende tonnellate di libri, uno come Bruno Vespa, allora è tutto facile. Sei corteggiato, atteso, desiderato… Ma, lo sappiamo: oggi tutti scrivono e pochi leggono. Il mercato editoriale, soprattutto in Italia, è molto ristretto: al confronto con paesi dalla popolazione vastissima, dove le tirature sono molto alte, un testo in italiano, lingua meravigliosa ma rara, ha una vita grama. Quindi oggi c’è un elenco sterminato di stampatori a pagamento ma sono rimasti pochi gli editori che, trattenendosi circa il 92% del fatturato (anche in considerazione delle spese che sostengono) editano il tuo testo, come un tempo si usava. Oggi puoi solo sperare di avere una certa fortuna, una notevole abilità nel marketing editoriale e tanta voglia di darti da fare per vendere quello che hai scritto.
Mi sembra anche giusto che uno si dia da fare per vendere quello che ha scritto.
Se nasci venditore di te stesso, sì. Se nasci con la voglia di scrivere perché ami le parole più dei soldi, no. Lo puoi fare, ma è un lavoro. Io, e tu ben lo sai, non ho mai “lavorato” una sola ora nella vita, mi sono solo divertito a fare moltissime cose che amavo, che è molto diverso dal lavorare.
Sì, ho letto la storia di Bic e l’ho capito. Sai, ti confesso che quasi quasi mi fa piacere che tu debba finalmente lavorare un po’.
Carino da parte tua, che sei uno sfaticato…
La recensione che ha dato più soddisfazione quale è stata?
Beh… direi soprattutto quelle di gente che non mi conosceva, quindi diceva cose non “contaminate” dall’affetto, oltre a molti ex allievi che hanno detto che “metto musica nelle parole”. Speravo si capisse che ho sempre cercato di farlo, ma non ne ero sicuro. Sai, ho sempre preferito, più che parlare, scrivere, perché la scrittura non è come l’acqua di un ruscello, che è una voce che non puoi annullare. Parlando, se devi correggere una parola che hai scelto male, dopo che ti è fuggita imperfetta non puoi disconoscerla. Se tenti di correggerla non la cancelli: la esalti. La parola scritta invece è solo tua sino a che non salvi il file. Ho sempre scelto le parole scritte una ad una, come albicocche mature sull’albero. Quella? No, meglio quell’altra. Gli aggettivi li ho soppesati e spesso cambiati. Devono essere perfetti, non troppi, efficaci come scudisciate o fragili come papaveri. Il bello dello scrivere è che richiede la fatica di rileggere, migliorare, modificare, cancellare, sintetizzare o ampliare… è tutto un lavorio che non ha mai fine. Alle scuole medie m’innamorai dell’italiano, la cosa più stimolante da apprendere. Per essere onesto m’innamorai, più che dell’italiano, della professoressa di italiano, bruna, brava e bellissima. La patetica cotta giovanile finì presto. L’amore per la lingua, invece, è ancora vivo. Mi intriga, ancora oggi, studiare l’etimologia delle parole. Una migliore comprensione del passato linguistico permette di avere una più chiara visione del presente e del futuro. Da adulto, studiando le attività di comunicazione, di marketing, di relazioni pubbliche e di Brand Reputation, mentre approfondivo i concetti di danneggiamento dell’immagine e di denigrazione di un brand, mi venne utile ricordare che denigrare deriva da tingere completamente di nero: rendere nero (nigrare) del tutto (de-). Rispetto a diffamare, calunniare o screditare, denigrare chiariva con il suo etimo latino la forza del termine oscurare (una fama, una reputazione) annerendola totalmente. Fantastico. A suo tempo mi piacque molto scoprire che il verbo immaginare deriva dal latino "in me mago agere", lascio agire il mago che è in me. Cose che aprono il cuore, non solo la mente. A volte è solo una curiosità: di solito non vi chiedete perché un fiore si chiama bucaneve, dal momento che il suo nome lo rivela già chiaramente. Ma se si chiama tulipano, scoprite che quel fiore, che tutti pensano olandese, in realtà è turco, è un bellissimo fiore che sembra uno stelo con un turbante in cima al capo. Ha il giusto nome, visto che, in turco, tülbent vuol dire turbante.
Considerato che l’attività di scrittura assorbe il 90% delle tue giornate, cosa cerchi di approfondire, oltre all’interesse per la musica?
Mi affascina la genesi dei testi letterari.
Cioè come nasce l’idea che sfocia in un romanzo, in una poesia, in un racconto, nel soggetto di un film?
Infatti. Ricordati che i miei primi lavori sono stati fare il ricercatore di mercato, intervistando degli imprenditori, e fare il giornalista, ascoltando la gente. Per cui ho raccolto una serie di spunti nelle interviste agli scrittori. Quasi tutti hanno ribadito la grande differenza che esiste tra il periodo giovanile, nel quale avevano timori nell’affrontare un testo rispetto al momento della maturità, dove la stesura inizia e scorre via senza problemi.
Cosa ti hanno detto?
Il primo consiglio fornito è stato di evitare di accendere il computer e fissare il cursore che pulsa come un piccolo cuore speranzoso… Niente, non viene in mente nulla. È il modo più sicuro per rimanere bloccati. Meglio scrivere una qualunque cosa, davvero le prime due righe anche senza senso, pur di evitare l’horror vacui, superando il rigore interno che ci porta a scrivere solo cose possibilmente interessanti.
Cosa suggerisci?
Per stimolare i più timidi direi di partire con dei giochi. Giocare serve a disinibirsi, ad alleggerire la tensione. Ad esempio: cosa direste a un gemello cattivo, immaginando che, da quando siete nati, vi ha costantemente rovinato la vita? Oppure: descrivere il motivo per il quale amate un determinato colore o un profumo. O ancora: scrivere quello che vi ha fatto ridere di gusto nell’ultima settimana, oppure le tre cose che si devono fare ogni giorno, quelle detestate, poi quelle che invece vi danno più soddisfazione; descrivere la persona che più ammirate e perché; poi indicare quello che non avete mai fatto nella vita ma avreste tanto voluto fare. Poi rovesciate lo schema: cosa invece avete fatto e ve ne rammaricate moltissimo, perché era proprio da evitare?
Vi è differenza tra lo scrivere maschile e quello femminile?
Ovviamente. Quello femminile, noi uomini, possiamo solo ammirarlo e studiarlo.
Un esempio di studio del pensiero femminile?
Provate a rispondere, perché, con un armadio pieno di vestiti, se si sposa una cara amica, una donna non “ha niente da mettersi”? Ci si deve impegnare per capire un mondo piacevolmente complesso.
Quindi, per evitare il blocco, l’importante è scrivere qualcosa?
Certo, perché anche una serie di stupidaggini sono molto più stimolanti di un cursore che pulsa su di una videata deserta. Pensa. Dal sapore di una petit madeleine Marcel Proust ha tratto uno spunto chilometrico nella sua Recherche. Voltaire diceva: “Giudicate un uomo dalle sue domande più che dalle sue risposte”. Allora una tecnica un po’ meno grezza è quella di immaginare le domande che farebbero dei personaggi che voi ammirate. Cosa risponderebbe, secondo voi, Piero Angela alla domanda “Qual è il valore sociale di una persona anziana?” oppure Mario Tozzi alla domanda “Com’è possibile ritornare a ricreare un mondo rispettoso dell’ambiente?” Se anche fare delle domande ad altri ci blocca basta prendere ispirazione proprio dall’approccio multipotenziale dei bambini. Dice Annamaria Testa, nel suo bellissimo libro Il Coltellino Svizzero, che i bambini sanno fare delle domande da scienziati (Come fanno i pesci a respirare nell’acqua? Perché i miei biscotti non parlano?); fanno domande da filosofi (Perché il nonno è nel cielo? Perché ci sono le persone cattive?), da sociologi (perché non ho un fratellino?) da psicologi (perché ti arrabbi?) o da economisti (perché devi sempre andare a lavorare?). I bambini sono molto creativi perché non sono ancora stati investiti dallo tsunami della cattiva cultura che soffoca la loro innocenza. Io credo di essermi salvato grazie al fatto che i miei genitori erano pittori ceramisti e musicisti, in parte estranei alla cultura soffocante dell’epoca. Quando alla fine degli studi venni convocato per un colloquio di selezione dall’allora importante Banca Commerciale Italiana (poi confluita in altro brand del credito) mia madre mi impedì di presentarmi al colloquio: “Sei matto? Tu, in banca, per tutta la vita ad annoiarti aspettando il momento di andare in pensione?”
Credo che sia stata l’unica madre italiana ad impedire all’unico figlio maschio di lavorare in banca.
Grazie di essere esistita, mamma. Lei mi conosceva bene e mi lasciò libero di suonare, scrivere e fare quella quantità di cose che altri ritenevano “perdite di tempo”.
Per onestà intellettuale, però, devi ammettere che era un periodo in cui l’Italia era diversa e certe strade erano più facilitanti, rispetto ad oggi.
È vero. Ho avuto il privilegio di vivere nella parte più interessante del 900.
A proposito di Vivere. Cosa hanno detto i lettori di quel micro-romanzo nel romanzo che è nella parte finale?
Cose bellissime. In quella parte mi sono divertito ad inventare dei personaggi e a descriverne altri in base a dei ricordi di persone conosciute. Ho preso spunto da un articolo di Enzo Biagi che, a fianco di un servizio giornalistico che descriveva il decesso di quattro persone per un grave incidente stradale, scelse la strada delle emozioni per far affezionare i lettori a quei morti a loro sconosciuti, creando una sintesi della loro giornata e del loro fatidico appuntamento finale. Ho modificato la situazione di riferimento, ho inventato i personaggi e le loro storie di vita… Una lettrice, Laura Biason, ha colto pienamente il senso del racconto: “Tra ieri e oggi mi sono sparata 14 ore di treno e ne ho approfittato per "divorare" il libro. Ha ragione chi lo ha definito un testo che si legge tutto d'un fiato. È esattamente così. Mi è piaciuta la prima parte perché è un film di una vita grande e piena, di quelle che piace sempre sentir raccontare. E mi ha emozionato la seconda parte, dove il racconto prima ti descrive una serie di figure nella loro quotidianità per poi lasciarle libere di colpo, perché possano andare dolorosamente via per sempre. Emozionante e vero”.
Pubblicato il 05/06/2023 alle ore 17:22 da Enrico Cogno
Centrostudi comunicazione cogno e associati © Enrico Cogno 2018-2024 Responsabile: Enrico Cogno. - Partita IVA 01872310584.
Made with oZone iQ