Nel corso degli anni 90, Enrico Cogno, partecipando ad Arezzo a un seminario tenuto da Giorgio Nardone, ritrovò il suo antico mentore, Paul Watzlawick, ricercatore del Mental Research Institute di Palo Alto e autore di Pragmatica della Comunicazione Umana, di Change e molti altri testi fondamentali nel campo della comunicazione. Watzlawick, gentile e collaborativo come sempre, accettò di tenere una serie di lectio magistralis presso il Centrostudi Comunicazione. Eccolo, nella foto sotto, durante il primo dei suoi storici interventi nell’aula A della sede di via Arco dei Tolomei.
Ecco il testo, riportato integralmente, della sua conferenza su “I sistemi come amplificatori di difficoltà”.
“Mille grazie al Prof. Cogno per avermi invitato. Vorrei cominciare con qualche esempio pratico: nel maggio dell’anno scorso è avvenuto un fatto accidentale molto interessante, per me che cerco di studiare quella che si chiama la “costruzione di realtà attraverso la
comunicazione”. Una donna, ricoverata d’urgenza in via provvisoria all’Ospedale Generale di Grosseto in uno stato di schizofrenia acuta, doveva essere trasferita nella clinica psichiatrica della sua città natale, a Napoli. All’arrivo degli infermieri, la paziente era seduta sul letto, completamente vestita, con la borsa già pronta. Alla richiesta di seguire gli infermieri e di entrare nell’ambulanza che la doveva portare a Napoli, la donna dette in escandescenze, diventò belligerante; ebbe quella che si potrebbe definire una crisi di schizofrenia. Dopo un’iniezione calmante, l’ambulanza partì per Napoli, ma all’altezza di Roma, venne fermata e rimandata d’urgenza a Grosseto. C’era stato un errore: la signora era solo la parente di un uomo che era stato operato all’ospedale e che era stata scambiata per la paziente schizofrenica.
Bene: quello che m’interessa far notare non è il fatto che ci sia stato un errore, poiché questo può succedere. La cosa per me più importante è che nel contesto che si era creato, quindi nella realtà creata da questo errore, ogni comportamento di quella donna era prova ulteriore della sua follia. Se dava in escandescenza (ovviamente non voleva essere caricata su un’ambulanza, visto che stava solo aspettando che riportassero in stanza il marito) queste sue manifestazioni diventavano una prova certa della sua malattia mentale.
Ecco ora un altro esempio, sempre nell’ambito clinico, che dimostra invece come, anche quando non si compie nessun errore, i sistemi stessi possono creare difficoltà. Una donna di Stanford, cresciuta in un ambiente in cui, da bambina, ogni espressione di emozioni negative le era stata proibita, ebbe una sera un violento attacco di collera, una vera crisi di rabbia. Per lei, così inibita, questo era un qualcosa di totalmente nuovo, preoccupante. Andò, con qualche esitazione, al reparto psichiatrico dell’Università di Stanford. II medico di turno si trovò di fronte ad una persona evidentemente angosciata e naturalmente non poté subito decidere di che cosa si trattava. Fece l’unica cosa responsabile e intelligente che fosse possibile fare: disse alla signora di rimanere in clinica fino all’indomani per ulteriori accertamenti. II giorno seguente, un secondo psichiatra, di fronte agli atti del ricovero che indicavano “stato angoscioso di origine sconosciuta”, consigliò un ricovero di due o tre giorni per completare le indagini. Anche questo secondo medico fece quindi una cosa responsabile e intelligente. Dopo tre giorni si resero conto che non c’era assolutamente nessuna patologia e la donna venne rimandata a casa. Per precauzione intervenne un terzo psichiatra e, dopo tre o quattro mesi di terapia individuale, questi si rese conto che non esisteva assolutamente nessuna forma patologica. L’episodio termina qui. Racconto questo fatto solamente per far vedere che in questo caso il “sistema” non aveva errato, poiché ognuno aveva agito in forma responsabile e intelligente. Eppure così si era creata una “paziente mentale”.
Come si vede, a volte le cose sono super-personali; non si possono ridurre a un singolo individuo. Oggi disponiamo di una spiegazione di questi fenomeni: fanno parte dell’interazione, quindi non sono più comportamenti strettamente individuali.
Potremmo prendere altri esempi della comunicazione diretta di tipo verbale. Sappiamo che ogni messaggio, ogni espressione verbale, si svolge su due livelli: il primo è quello dell’informazione, il secondo quello della relazione. Anche se dico soltanto “buongiorno”, il modo in cui lo dico, esprime in un certo senso la mia definizione della relazione con questa persona.
Perfino i messaggi scritti hanno ancora qualcosa di ciò che noi chiamiamo “l’aspetto relazionale”. “Divieto di entrata” fornisce un’impressione diversa da: “Per favore non usare questa porta”. L’informazione trasmessa è la stessa, ma la definizione della “relazione d’autorità” è molto differente. Ciò genera un’amplificazione della complessità.
Entriamo nel tema in una forma più teorica. Quarant’anni fa nel mio campo clinico è avvenuto questo cambiamento: ci siamo resi conto che non si poteva più andare avanti a considerare l’individuo come la causa unica delle difficoltà, per esempio nella famiglia.
Un individuo, disturbato mentalmente, causa naturalmente delle difficoltà. Fino ad allora ciò si faceva risalire a delle cause nel suo passato; per portare un cambiamento bisognava quindi andare nel passato, nell’inconscio di questa persona. Poi, una volta scoperte le cause, si doveva comunicarle al paziente; questi, poi, aveva (o poteva avere) un “insight” e ciò era l’elemento curativo. Questo modo di procedere è ciò che il filosofo Karl Popper ha definito “una proposizione autoimmunizzante”. Si tratta di una proposizione, o supposizione, la cui verità viene confermata sia dal successo, sia dal fallimento della sua applicazione pratica. Se, in base a questa ricerca delle cause nel passato remoto del paziente, lo stato di quest’ultimo migliora, evidentemente questa è una prova che il trattamento ha avuto un effetto. Se invece non c’è alcun cambiamento, vuol dire che la ricerca delle cause nel passato non è stata spinta sufficientemente lontano e in profondità nell’inconscio del paziente. Ci si è resi gradualmente conto, poi, che non è così. Diciamo che il cambiamento più importante è dovuto all’introduzione di idee antropologiche. L’antropologo, quando si trova di fronte a dei fenomeni che vuole studiare, non li accerta come fa uno psichiatra. Questi si domanda perché l’individuo si comporta in un certo modo, lavora con il modello di una particolare entità clinica già ben formata teoricamente nella sua testa. L’antropologo fa il contrario, si avvicina ai fenomeni che gli interessano con il minimo possibile di supposizione. È un osservatore passivo, ma molto attento; cerca di capire come funziona il sistema. Facendo questo, si arriva al punto di domandarsi non già perché il paziente si comporti in una forma psicotica, ma in quale contesto umano il suo comportamento potrebbe essere considerato comprensibile.
Questo per noi fu il principio della terapia della famiglia. Oggi lo chiamiamo “terapia sistemica” perché abbiamo cominciato a capire che questo vale anche per altre interazioni, dalla terapia della coppia, per esempio, fino alle relazioni internazionali. Sono passati i tempi in cui pensavamo che un evento fosse una cosa lineare. Adesso sappiamo, che si deve pensare in termini di causalità circolare e non più lineare.
Tutta la cibernetica, che è sorta dopo la seconda guerra mondiale, è basata sull’idea che bisogna prendere in considerazione la circolarità e che non possiamo andare avanti a parlare dell’individuo come l’unica parte di un problema. Questo è possibile osservarlo sempre più frequentemente, in special modo nei grandi sistemi. La problematica più tipica in questo ambito e il concetto espresso dalla frase: “io non faccio niente; io reagisco solo a quello che fanno gli altri”. E gli altri pensano lo stesso. In una relazione a due (diadica), sebbene esistano una infinità di possibilità tra i due estremi, inevitabilmente si arriva alla conclusione che, se la qualità emergente è qualcosa di positivo e piacevole, quello “è il nostro contributo alla relazione”; se la stessa cosa, invece, è qualcosa di sgradevole, cioè è vista come una minaccia alla relazione, in tal caso “la colpa è dell’altra parte”. Non riusciamo ad accettare che in una relazione tra due persone (o due campi) ci possa essere un terzo elemento, super-personale o super-sistemico. Stiamo arrivando al punto, anche in ambito aziendale, in cui incominciamo a capire che i sistemi hanno la possibilità di auto-organizzarsi per un fenomeno che il biologo cileno Humberto Maturana ha definito autopoiesis.
Si parla oggi frequentemente di “Corporate Identity”, l’identità dell’impresa. Perché la gente comincia a rendersi conto che due imprese, che più o meno sembrano essere strutturate in una forma simile, hanno tuttavia un clima personale molto differente. La cosa importante è il fatto che nel momento in cui cominciamo a pensare in termini di relazione e non più in termini di caratteristiche, di concetti monadici, precipitiamo immediatamente in una complessità enorme. Per dare un semplice esempio, i cibernetici ci insegnano che se prendiamo due entità, capaci solo di due comportamenti, attivo o inattivo e osserviamo l’interazione tra queste due entità, ci accorgiamo che ci sono sei possibili forme di relazione. Eccole: o tutti e due sono inattivi, o A e attivo e B inattivo; viceversa B attivo e A inattivo; o A influisce su B; o B influisce su A, oppure tutti e due si influenzano vicendevolmente. Sono sei possibilità. Qui i cibernetici ci dicono: se aumentassimo il numero di queste entità da due a sei, cosa che certamente non è un gran salto quantitativo, e se permettessimo che interagissero esattamente come i primi due, avremmo davanti a noi un sistema di comunicazione di tipo esponenziale, che ci permetterebbe di osservare ad esempio una nuova costellazione ogni secondo per il resto della nostra vita. In questo modo super-astronomico aumenta la complessità nel momento in cui si cominciano ad osservare o a studiare fenomeni complicati di interazione.
Dobbiamo ai cibernetici della seconda generazione il concetto importantissimo del “variety reducer”, vale a dire del “riduttore di complessità”: se vogliamo in qualche modo cambiare una situazione esistente di una certa complessità, l’errore più grave sarebbe di credere che solo una strategia risolutiva di uguale complessità possa apportare un cambiamento con un effetto positivo. Dove s’è cercato di applicare questa idea sbagliata sono sorte delle enormi difficoltà. Un esempio di riduttore di complessità potrebbe essere il termostato. In ogni casa moderna ce n’è uno: una cosa semplicissima, oggi che siamo in un’epoca elettronica. Questa piccola scatola sul muro non ha studiato meteorologia, non analizza una vasta serie di dati storici sul clima: non fa altro che reagire alla discrepanza tra la temperatura desiderata e la temperatura attuale nella casa. Chi si occupa della soluzione di problemi nei sistemi complessi, si trova sempre davanti a questa necessità: trovare una soluzione che sia semplice e che pure faccia fronte all’enorme complessità.
John Ford, quando produsse la sua prima automobile, il modello T, lo fece in soli undici mesi, dal momento in cui ebbe l’intenzione di produrre quest’auto fino alla sua realizzazione. Decenni dopo, un’altra macchina Ford, la Escort, è stata in corso di sviluppo per sei anni, e ne e venuta fuori un’auto relativamente affidabile. Ai nostri tempi non c’è aeroporto, o ospedale che, al momento della sua apertura, non sia già fortemente obsoleto. Chi non riesce a introdurre un riduttore di complessità, perisce. II voler far fronte a un problema con una soluzione più grande del problema stesso è un grosso errore. Vorrei ora menzionare brevemente altre patologie sistemiche che hanno valore tanto nella famiglia e nella relazione diadica, come nelle grandi imprese, perché si tratta di relazioni isomorfiche, cioè che hanno la stessa struttura, sebbene non la stessa complessità. Ho già menzionato prima il fatto che noi tutti quanti abbiamo la reazione immediata di attribuire qualcosa che non va agli altri: loro sono i colpevoli, noi siamo solo quelli che reagiscono.
Questo meccanismo è basato su quello che nella teoria matematica dei giochi si chiama “gioco a somma zero”. Se facciamo, ad esempio, una scommessa di 10.000 lire ed io perdo, le mie -10.000 e le sue + 10.000, insieme, danno zero.
Questo crea un universo infernale, perché non c’è via d’uscita. Per chi si occupa dei problemi nei sistemi umani, può essere molto difficile introdurre in questa rigida interazione quello che nella teoria matematica dei giochi si chiama il “gioco a somma non zero”, cioè un gioco nel quale tutti e due i contendenti possono perdere, come nella guerra atomica per esempio, ma allo stesso tempo possono guadagnare entrambi. Quindi chi si occupa della soluzione dei problemi deve cercare la possibilità di arrestare il processo dei giochi a somma zero. Un altro problema che si osserva è il fatto che, allo stato attuale delle nostre conoscenze di questi processi sistemici, non possiamo ancora predire con certezza come e quando avviene che la quantità ad un certo punto diventi qualità. Si osserva cioè il cambiamento brusco di una crescente quantità in qualità.
Pare esista un limite di questo tipo, ad esempio, nella costruzione di navi cisterne. Una nave di 200.000 tonnellate improvvisamente comincia a comportarsi diversamente da una nave più piccola. La sua manovrabilità cambia; al punto che molte grandi sciagure di navi cisterne negli ultimi 25 anni sarebbero dovute al fatto che ad un certo punto, in una emergenza, la nave non risponde allo stesso modo, non solo per la sua maggiore grandezza, ma anche per altri sconosciuti motivi. L’esempio più interessante è però quello riferito a Cape Kennedy, la base spaziale americana. Per proteggere i razzi e le torri di lancio, fu necessario costruire un grandissimo hangar, in particolare per evitare le piogge ed in particolar modo i fulmini. Con un’esperienza alle spalle di 80 anni nella costruzione di hangar, vennero moltiplicate per 10 le dimensioni dell’hangar più grande esistente fino ad allora; ma, a costruzione terminata, gli esperti dovettero constatare, con molta sorpresa, che uno spazio vuoto di queste enormi dimensioni ricreava il suo proprio microclima interno, vale a dire accumulazione di acqua condensata e quindi precipitazioni e acquazzoni, comprese scariche di elettricità statica, quindi fulmini. In altre parole, quella, che doveva essere una soluzione, produceva invece da se proprio ciò da cui doveva proteggere. Sappiamo che un cambiamento apparentemente irrilevante, marginale, può produrre dei grandi cambiamenti nel centro del sistema.
Quindi, anziché seguire questa soluzione tentata, che ha dato risultati catastrofici, per cercare di arrivare alla soluzione della stessa complessità del problema, dobbiamo provare a fare qualcosa per bloccare e sostituire la soluzione tentata.
Esiste una situazione ricorrente, particolarmente nell’ambito aziendale. Qui la soluzione tentata è spesso basata su un’idea, poco realistica, secondo la quale “uno sa esattamente ciò che un altro pensa, e sa ciò che un altro vuole fare; quindi non ha nessuna necessità di scoprirlo”.
Afferma Carl Rogers: “Quando si vuole arrivare a una distensione, per la soluzione di un problema interpersonale o interaziendale o anche politico, si dovrebbe imporre una regola secondo la quale, prima che il problema stesso possa essere discusso, i partecipanti dovrebbero spiegare il punto di vista dell’altra parte”. Si sostiene che se fosse possibile introdurre questa regola, il cinquanta per cento del problema stesso sarebbe risolto ancor prima di essere menzionato e discusso.
Vorrei ora citare un altro problema molto frequente, di norma presente sia nelle relazioni personali, sia nell’ambito aziendale. Si tratta dell’idea sbagliata secondo cui in un valido sistema non dovrebbero esserci elementi di disordine. Si ritiene che un sistema funzionante deve essere molto ordinato. E questa è una supposizione così grave che quasi garantisce un aumento del problema fino al crollo del sistema. Si sa che il funambolo mantiene l’equilibrio sulla corda mediante movimenti molto irregolari della sua asta. Se si dovesse perfezionare lo stile del funambolo, prendendo l’asta e mantenendola ferma, il funambolo cadrebbe immediatamente. Lo stesso vale per il ciclista in soupples, che deve fare certi movimenti che sono apparentemente senza ordine, ma che sono necessari. Quindi, in un sistema funzionante, un sistema che voglia mantenere la sua possibilità di crescere, di raggiungere qualcosa di nuovo, ci deve essere sempre una certa indefinita percentuale di caos. L’ordine completo ci conduce al disastro. Dobbiamo abituarci a una certa quantità di caos. E con quest’ultima constatazione sulle molte patologie sistemiche, concludo e vi ringrazio dell’attenzione”.
Il Centrostudi Comunicazione organizzò, l’anno seguente, un evento dal titolo “Distonie comunicative nelle organizzazioni complesse” presso la sede centrale di Confindustria, la cui relazione centrale era imperniata sull’intervento di Paul Watzlawick.
Nell’occasione del seminario di Paul Watzlawick avvenne l’inaugurazione dell’undicesimo Anno Accademico. Margherita Bruno si appresta a tagliare il nastro inaugurale nell’aula H di Confindustria.
Sempre negli anni 90 venne creato un club composto dagli ex allievi: oggi sarebbe un’attività facilmente gestibile con una pagina Facebook, ma all’epoca fu un’impresa complessa.
Tra l’altro, proprio il servizio social che ne prende il nome nacque, com’è noto, dal “libro delle facce” che tutte le università americane hanno sempre pubblicato. Ma l’iniziativa del Centrostudi ebbe inizio quando il web ancora non esisteva e non fu quindi facile tenere in contatto le molte centinaia di componenti.
Ognuno conosceva e manteneva attivi i rapporti con i componenti del proprio corso: chi, ad esempio, aveva frequentato una sessione di grafica non aveva contatti con chi, due anni prima, aveva frequentato, poniamo, un corso di marketing e via dicendo.
Per qualche tempo, però, si riuscì ad avere un’attività bene organizzata, un giornale dedicato al club (Ex Press) e una struttura associativa con tanto di cariche elettive.
Il periodo migliore fu quando alla presidenza del club venne eletto Fabio Aiola (che all’epoca, dopo il corso di marketing, venne assunto alla direzione marketing dell’American Express e poi proseguì la sua folgorante carriera come direttore Marketing delle maggiori griffe del mondo del lusso) e, con la presidenza onoraria di Paul Watzlawick, il Club riuscì ad organizzare una serie di eventi significativi.
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